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#02 May 2013 / Town Planning Borders, boundaries and other divisions

La periferia pubblica: da problema a risorsa per la citta' contemporanea

Testo pubblicato in "Oltre la città. Pensare la periferia", a cura di Attilio Belli, Cronopio, Napoli 2006.

Autor: Paola Di Biagi

Leggere le periferie

 

«Lebbra»1, «immensa malattia»2, «flora parassitaria»3; «immondezzaio»4, «pattumiera della città»5; «sordida anticamera»6, «inondazione»7, «oceano»8, «patchwork»9, «foresta»10. Con queste ed altre metafore urbanisti e architetti fin dai primi decenni e lungo tutto il secolo scorso hanno nominato la periferia, dichiarando così i propri timori per un loro incontrollato allargamento e in questo modo rivelando anche un imbarazzo verso quella città che in parte contribuiranno a costruire.

Le difficoltà nel definire in modo diretto e preciso il multiforme spazio periferico hanno portato a descriverlo non solo attraverso metafore, ma anche a indicarlo per negazione: la periferia non è più campagna ma non è ancora città11; o a parlarne come di un luogo dell'assenza: di storia, di regole, di significato, di qualità, di identità; o come di un luogo della perdita: qui la città perde l’articolazione degli spazi aperti e del suolo, perde lo storico rapporto tra tipo edilizio e forma urbana, la coerenza dei tessuti, la chiarezza del passaggio tra funzioni e regole diverse, perde il suo limite e la sua forma12. In queste descrizioni la periferia risulta una "linea d’ombra”, qualcosa che sta aldilà, della ferrovia, del fiume, dell’autostrada; una “soffitta” dove, a partire dallo sviluppo della città moderna, si è depositato in modo confuso ciò che la città ha via via scartato ed espulso; un “magazzino” di progetti e idee che si sono accostate senza mai consolidarsi per divenire pervasive; un “posto di frontiera” tra città e campagna, senza radici ma nemmeno prospettive. Cosicché lo stesso termine “periferia”, con la densità di significati negativi che ha accumulato su di sé e sulla “città nuova”, è trasformato in aggettivo per indicare una condizione più che rappresentare un luogo fisico. La periferia è divenuta un punto di vista.

Sguardi esclusivamente critici sulle periferie hanno prodotto nel tempo uno strato opaco di pre-giudizi vaghi e ridotti, uno strato che ha impedito non solo di vederne e leggerne con attenzione i diversificati caratteri e le potenzialità ma anche di alimentare le aspirazioni al cambiamento di consistenti parti della città (e della società) contemporanee. «La periferia è la città del nostro tempo»13 ci ricorda Giancarlo De Carlo; una semplice affermazione che dovrebbe farci «pensare alla costruzione del progetto in aree periferiche in maniera subordinata alla comprensione del funzionamento di queste parti di città» e suggerirci quanto sia importante «imparare a "leggere" le periferie»14.

Imparare a leggere il “palinsesto”15 periferico significa anche svolgere e stratificare operazioni diverse e puntuali; la descrizione dello spazio fisico non può prescindere dall’ascolto dello spazio sociale e nemmeno dalla rilettura dello spazio delle idee. Descrivere, ascoltare e rileggere aiuta a esplorare la superficie dello spazio periferico e a elaborarne una più profonda conoscenza, necessaria premessa alla sua trasformazione. 

Evitando di schiacciare un piano di lettura sull’altro, diventa più facile riconoscere i diversi processi che hanno portato alla formazione di consistenti parti urbane e distinguere storie differenti. Quando al contrario i piani sono stati con-fusi, l’accelerazione di giudizi critici sullo spazio fisico e sociale della periferia che ne è derivata si è deduttivamente riflessa anche su quei programmi di ricerca che hanno indirettamente contribuito a dare forma a quello stesso spazio; riflessi che hanno prodotto una sorta di delegittimazione di idee significative per la definizione della modernità nelle nostre aree disciplinari, una modernità che ha inseguito un fondamentale obiettivo: il diffuso miglioramento delle condizioni di abitabilità delle città europee. 

Tra i diversi e stratificati segni che compongono lo spazio urbano contemporaneo, quelli lasciati nella città nuova, in espansione da idee di città e di spazio abitabile elaborate e sperimentate nel Novecento - seppure resi opachi da cattive interpretazioni - appaiono ancora oggi densi di significati da rileggere e reinterpretare anche attraverso il  progetto.

 

Periferia e città pubblica

Pazienti letture aiutano a vedere uno spazio periferico composito, articolato da morfologie fisiche e sociali differenti, da luoghi con diverse criticità, qualità e possibilità di trasformazione. Semplici letture portano anche a riconoscere parti “formalmente compiute”16, l’unitarietà delle quali risulta innanzitutto dal rapporto tra pieni e vuoti, dalla scala e dai tipi del costruito e dall’ampiezza e dalla forma degli spazi aperti. A spiccare con evidenza, come isole nella marea dell’urbanizzazione che negli ultimi cinquant’anni, “casa dopo casa”, ha invaso le città europee, sono soprattutto i quartieri di iniziativa pubblica, realizzati lungo tutto il secolo passato per rispondere ai fabbisogni abitativi dei ceti sociali più disagiati; quartieri che sono andati a comporre e a far crescere negli spazi delle periferie una “città pubblica”.

Una città nata dalla “questione abitativa” che, seppure posta in tutta la sua gravità già nell’Ottocento, è divenuta centrale col secolo successivo, quando si è diffusa e codificata la convinzione che fosse compito della collettività e delle istituzioni pubbliche che la rappresentano occuparsi del miglioramento delle condizioni di abitabilità delle famiglie meno favorite. Il Novecento è quindi il secolo che ha visto nascere, svilupparsi e infine anche esaurirsi questa forma urbana, programmata e realizzata da diverse amministrazioni (Comuni, Iacp, Ministeri, enti statali, …), sorta su terreni solitamente esterni alla città, acquisiti e urbanizzati allo scopo di offrire alloggi, servizi e spazi aperti a coloro che non potevano accedere al “bene casa” attraverso le regole del mercato.

Nel XX secolo la casa economica e il quartiere popolare sono così divenuti consistenti materiali di costruzione delle periferie urbane, imponendosi anche come grande tema per la riflessione e la sperimentazione progettuale di architetti, urbanisti, ingegneri. Un tema che, portando questi progettisti a lavorare sulla “casa per tutti” e per un’ampia committenza, per certi veri “invisibile”, li ha stimolati a riflettere sulle loro responsabilità nei confronti della società e in particolare dei suoi strati più deboli, un tema che ha dunque assunto non solo un carattere di natura tecnica ma anche morale.

Le reciproche relazioni tra questa forma urbana novecentesca e la periferia sono evidenti. È la città non consolidata, quella in espansione a rendere disponibili le grandi quantità di aree necessarie, l’ampiezza e i costi delle quali si sono prestati alla realizzazione dei consistenti quartieri di edilizia a basso costo.

Periferia e città pubblica rappresentano anche gli ambiti nei quali con maggiore libertà si è tentato di dare forma alle idee di città espresse dal movimento moderno. Una città fatta di quartieri, simbolo dell’integrazione tra residenza e attrezzature primarie: spazi aperti, giardini, asili, scuole, negozi, ecc. Qui lo spazio abitabile si è specificato nell’articolazione tra interno ed esterno, tra pubblico e privato, tra individuale e collettivo; ad esso è stato affidato il ruolo di strutturare la parte urbana e di contribuire a dar vita e forma a comunità di cittadini.

Con il “materiale” del quartiere gli urbanisti hanno anche tentato di attribuire una forma alle periferie in espansione, con l’obiettivo di arginare l’inondazione della “città degli individui” sui nostri territori, plasmandola in parti unitarie e coerenti. 

Eppure periferia e città pubblica sono accomunate dagli stessi giudizi critica che hanno reso i quartieri simbolo di una generica cattiva qualità della periferia e, viceversa, una presunta diffusa condizione di marginalità della periferia si è indistintamente riverberata sui quartieri. Così come la periferia, nemmeno la città pubblica può essere letta come un unitario e indifferenziato insieme, associabile e riconoscibile per il suo primo carattere di luogo dell’edilizia residenziale economica e popolare. Come lo spazio periferico, la città pubblica si compone di parti dalle articolate forme e qualità e dai diversi stati di criticità; parti costruite in stagioni differenti del Novecento, esito di diversificate politiche abitative, urbanistiche e sociali e di ipotesi sull’abitare susseguenti nel tempo e accostate nello spazio. 

La messa in campo di letture che non si limitino alla sola superficie del suolo conduce a riconoscere e valorizzare le differenze, porta anche a quello spostamento del punto di vista che consente di far emergere la periferia pubblica come un “laboratorio di modernità”; un laboratorio che nel Novecento ha rappresentato un importante ambito di sperimentazione per le politiche pubbliche, per la ricerca progettuale di urbanisti e architetti, per lo studio del miglioramento dello spazio abitabile. Prive di un simile laboratorio, la città contemporanea da una parte e le nostre discipline dall’altra, sarebbero oggi certamente meno articolate e fertili.

Una volta ampliato lo sguardo, i quartieri potranno emergere anche in quanto esito e “deposito” di diverse storie: di idee di città, di spazio, di politiche abitative, di processi e metodi di edificazione, di comunità di cittadini e dei loro differenti modi d’uso degli spazi individuali e collettivi. Dalla capacità di riconoscere lo spessore di queste storie intrecciate possono derivare non solo rinnovate interpretazioni delle periferie, ma anche più consapevoli e solidi progetti orientati alla loro riqualificazione.

 

La periferia pubblica come laboratorio per nuove progettualità

Se la costruzione della città pubblica, con l’affievolirsi dei fabbisogni abitativi più consistenti e con l’esaurimento del suo ruolo nella crescita della città, è un’esperienza da considerare conclusa col Novecento17 e se essa è stata, seppure contraddittoriamente, un “laboratorio di modernità”, i quartieri depositati sul suolo delle nostre periferie possono essere interpretati oggi anche come un’”eredità del moderno”, un’eredità che racchiude un valore documentario e patrimoniale. Una questione non semplice, dato il carattere per certi versi problematico di un simile patrimonio. Infatti, seppure nati con l’intento di dare risposta ai bisogni delle comunità locali, molti quartieri, soprattutto tra quelli costruiti nella seconda metà del secolo scorso, appaiono caratterizzati da una condizione di marginalità sociale e funzionale, spesso associate a un degrado ambientale, urbanistico, edilizio. L’addensarsi di queste caratteristiche richiede programmi di intervento articolati e integrati. 

Il progetto di riqualificazione tuttavia - non solo nelle situazioni di maggior interesse, come nei quartieri realizzati negli anni cinquanta col piano Ina-Casa18 - deve anche sapersi coniugare con la tutela di un simile “patrimonio del moderno”19, mostrando anche la capacità di valorizzare elementi costitutivi della memoria locale, come le “tracce” lasciate nel tempo dalle comunità che hanno abitato e che abitano questi spazi20.

L’attuale problematicità delle periferie pubbliche è data anche da una loro condizione di “non finitezza”, soprattutto nella conformazione e negli usi degli spazi aperti e delle attrezzature collettive. È proprio questa caratteristica di parti di città (società) non finite, insieme ai valori di modernità espressi dai loro spazi - seppure non sempre presenti ed evidenti – a rivelare le capacità di trasformazione di questi luoghi, mostrandoli in grado di rigenerarsi e trasformarsi in risorsa attiva per il futuro della città. Una trasformazione resa probabile e possibile da numerosi sforzi progettuali fondati su interpretazioni che sappiano coglierne le potenzialità grazie al superamento di quella identificazione negativa che troppo spesso li ha accompagnati, una identificazione divenuta talvolta «vera e propria stigmatizzazione territoriale … un handicap che il soggetto deve ogni volta superare, instaurando così un circolo vizioso tra marginalità sociale, visibilità del disagio e ostilità del resto della città»21.

L’emergere di una crescente attenzione per le valenze ambientali e sociali che in questi contesti il progetto urbanistico può assumere è d’altra parte testimoniato da numerose esperienze avviate nel corso degli ultimi decenni in Europa e in Italia22. Alcuni interventi di riqualificazione in corso sottolineano l’esigenza di avviare nuovi percorsi progettuali improntati all’interazione tra differenti approcci e alla costruzione di processi che siano in grado di delineare reti di cooperazione tra abitanti e istituzioni locali23. Essi mettono in luce la necessità di attivare l’integrazione tra diversi apporti disciplinari, il dialogo tra progettisti, tecnici, operatori, cittadini, tra coloro che abitano e fruiscono gli spazi della città pubblica e coloro che costruiscono e governano i processi urbanistici24. Simili approcci, stimolandoli ad uscire dalla propria autoreferenzialità, conducono architetti e urbanisti ad aprirsi verso una concezione processuale degli interventi di riqualificazione delle periferie e dei quartieri, una riqualificazione orientata a promuovere forme di coinvolgimento delle comunità locali. La partecipazione attiva degli abitanti nella definizione, realizzazione, gestione di operazioni rivolte soprattutto al ridisegno degli spazi comuni e delle attrezzature di uso collettivo può essere strumento utile in questo senso.

Ecco allora che la città pubblica oggi torna ad assumere un ruolo di laboratorio per progettualità innovative, dove diversi percorsi di ricerca, oltrepassando rigidi steccati disciplinari, sperimentano progetti e strategie capaci di avviare una più ampi rigenerazione urbana e di disegnare nuovi equilibri territoriali e sociali. Dopo la quantità rilevante di nuove idee di spazio che lungo il secolo passato ha introdotto nelle periferie in formazione, la città pubblica può divenire oggi un fertile dispositivo per la riqualificazione dei territori della nostra contemporaneità, assumendosi, per la sua densità tematica e progettuale, il compito di guidare ricerca e sperimentazione di approcci inediti al progetto urbanistico, ritrovando in tal modo la possibilità di ripensare ai rapporti tra spazio e società, come è stato nelle sue migliori esperienze del Novecento.

 

 

Le Corbusier, L'urbanistica dei tre insediamenti umani, Etas Kompass, Milano 1967 (1959), p. 68.

Ibidem, p. 138.

G.U. Polesello, A. Rossi, F. Tentori, Il problema della periferia nella città moderna, in «Casabella» n. 241, 1960, p. 38.

B. Taut, Una casa di abitazione, F. Angeli, Milano 1991 (1927), p. 57.

G. Campos Venuti, F. Oliva, Urbanistica alternativa a Pavia, Marsilio, Venezia 1978, p. 14.

Le Corbusier, La Carta d’Atene, commento al punto 22, in P. Di Biagi (a cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna, Officina, Roma 1998, p. 456.

Le Corbusier, L'urbanistica dei tre insediamenti umani, cit. p. 67.

M. Tafuri, Storia dell'architettura italiana 1944-1985, Einaudi, Torino 1986, p. 152.

P. Portoghesi, Urbanistica e storia della città, in «Urbanistica» n. 8, 1985, p. 60.

10 M. Tafuri, Storia dell'architettura italiana 1944-1985, cit., p. 155.

11 «Frangia irregolare che non ha ancora le caratteristiche di città, ma ha ormai perso l'amenità della campagna e che forma una cintura spaventosa e deprimente intorno alle moderne città in espansione», R. Unwin, La pratica della progettazione urbana, Il Saggiatore, Milano 1971 (1909), p. 137.

12 «La periferia conquista malinconicamente la campagna, proprio come fa una macchia d'olio su di una carta assorbente dilatandosi in inattese illogiche direzioni», G. Michelucci, La macchia d'olio, in «La nuova città» n. 10, 1952, p. 372.

13 «La periferia è la città del nostro tempo della quale tutti siamo in un modo o nell'altro responsabili. Perciò sarebbe bene cominciare a studiarla con impegno e, possibilmente, con tolleranza», G. De Carlo, Dopo gli errori del nostro tempo, in A. Clementi, F. Perego (a cura di), Eupolis. La riqualificazione delle città in Europa. I. Periferie oggi, Laterza, Roma 1990, p. 300-301.

14 «Non mi sento di dire che la periferia sia tutta negativa. Al suo interno si sono dati dei fenomeni strettamente legati ai vari modi di vita contemporanei e per quanto essi ci possano apparire rozzi o sgradevoli, sono tuttavia espressione delle popolazioni insediate e almeno per questo sono degni di attenzione. Se non si considera questo aspetto c'è il rischio di staccarsi completamente dalla realtà, di formulare proposte in astratto e non fondate su fatti concreti», G. De Carlo, Un progetto per le periferie, in «Housing» n. 4, 1990, p. 160.

15 Cfr. A. Corboz, Il territorio come palinsesto, in «Casabella» n. 516, 1985.

16 «La definizione di parte resta [...] un problema aperto: essa può essere un'unica architettura [...] quanto un sistema che imposti la struttura d'insieme, cui aggiungere liberamente le varie parti [...] o ancora un settore urbano individuabile e definibile in sé [...] In tutti i casi il carattere necessario (e non ancora sufficiente) perchè una parte si costituisca in quanto tale rispetto all'insieme, è che essa sia formalmente compiuta, quindi architettonicamente riconoscibile», C. Aymonino, Il significato delle città, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 276-277. Le parole di Carlo Aymonino sembrano suggerire quale condizione necessaria per l'individuazione di una parte urbana l'essere formalmente compiuta e conclusa «perché si è arrestato temporaneamente il processo delle [...] successive trasformazioni» e perchè «architettonicamente riconoscibile». In questo senso la categoria di parte è utile per indicare molti degli interventi pubblici nel settore residenziale.

17 Consistenti programmi di costruzione di nuova edilizia sociale in corso di attuazione in alcune città europee sembrerebbero smentire una simile ipotesi. Si veda ad esempio: C. Sambricio, Nove “monumenti” popolari per Madrid, in «Il Giornale dell’architettura» n. 32, 2005.

18 Cfr. P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l'Italia degli anni cinquanta, Donzelli, Roma 2001.

19 Cfr. F. Choay, L’allegoria del patrimonio, Officina, Roma 1995 (1992); «Les Annales de la Recherche Urbane» n. 72, 1996, Patrimoine et modernité; L. Bobbio (a cura di), Le politiche dei beni culturali in Europa, il Mulino, Bologna 1992; A. Bourdin, Sur quoi fonder les politiques du patrimoine urbain?, in «Les Annales de la Recherche Urbane» n. 72, 1996; O. Söderström, I beni culturali come risorse sociali di progetti territoriali, in C. Caldo, V. Guarrasi (a cura di), Beni culturali e geografia, Patron, Bologna 1994; A. Marin, Patrimonio e modernità. Alcuni spunti bibliografici, in «Urbanistica informazioni» n. 169, 2000.

20 Il progettista non dovrebbe temere la trasformazione d’uso della sua “opera” vedendola come un processo di corruzione dell’idea originaria ma semmai seguire nel tempo le “evoluzioni sociologiche” del progetto, alla ricerca di quelle “tracce di comunità” che gli abitanti hanno apportato con l’uso degli spazi nei quali abitano, «e dove possibile migliorarlo in relazione alle nuove dinamiche sociali», cfr. A. Bagnasco, Le colpe sociali delle periferie. Perché occorre evitare l’identificazione di luogo fisico e degrado sociale, in «Il giornale dell’architettura» n. 11, 2003, p. 3.

21 F. Zajczyk, Introduzione. Il quartiere come area complessa di analisi, in Aa.Vv., Milano. Quartieri periferici tra incertezza e trasformazione, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 25.

22 Cfr. Riqualificare, tutelare la città pubblica, a cura di P. Di Biagi, in «UrbanisticaInformazioni» n. 168, 1999.

23 Nodo concettuale dei più significativi programmi di riqualificazione urbana avviati a partire dagli anni novanta (dai programmi comunitari Urban I e II, ai Contratti di quartiere I e II e ai Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio-Prusst) è proprio la necessità di agire in forma integrata sulle molte dimensioni dello spazio urbano; in questo attuando uno spostamento dell’attenzione dallo strato puramente fisico degli interventi ai più complessi processi che legano spazi, modi d’uso e attività che in essi hanno luogo. 

24 Esempio di un approccio innovativo alla riqualificazione della periferia pubblica è l’esperienza avviata a Trieste alla fine degli anni novanta, attraverso il progetto Habitat – Salute e sviluppo delle comunità che vede la collaborazione tra il Comune (l’area dei servizi sociali e sanitari e quella delle pari opportunità), l’Azienda per i servizi sanitari e l’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale (ex Iacp) oltre al coinvolgimento attivo del settore privato (abitanti, associazioni locali e di volontariato, cooperative sociali). Si tratta di un programma che articola interventi di natura socio-assistenziale e spaziale, rivolto a parti della periferia pubblica triestina afflitte dall’addensarsi di gravi condizioni di esclusione sociale e degrado urbanistico, come il prevalere di popolazione anziana, la carenza di servizi, abbandono delle attrezzature comuni, la marginalizzazione di giovani o minori. Cfr. E. Marchigiani, La riqualificazione della città pubblica: il programma Habitat, in Trieste. Laboratorio di politiche, piani e progetti, in «Urbanistica» n. 123, 2004. Sull’esperienza della costruzione della città pubblica a Trieste nel corso di tutto il Novecento si veda P. Di Biagi, E. Marchigiani, A. Marin (a cura di), Trieste ‘900. Edilizia sociale, urbanistica, architettura. Un secolo dalla fondazione dell’Ater, SilvanaEditoriale, Milano 2002.

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